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"Paese mè, 'n te pozze mai scurdà ...".Le semplici, toccanti parole della celeberrima canzone popolare abruzzese "Paese mè", del M.o Antonio Di Jorio, sono l'espressione più genuina per descrivere il profondo ed indissolubile vincolo affettivo che lega ogni uomo, per tutta la sua esistenza, al paese natio.

Questo sito è dedicato a tutti gli abruzzesi che vivono lontano dalla loro terra e si propone, per quanto possibile, di offrire loro le immagini più significative dei luoghi in cui hanno visto la luce e mosso i primi passi.
     
     
     
     
     
     
 
Riserva Naturale CALANCHI DI ATRI, Oasi WWF e S.I.C.
 
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La Riserva Naturale Regionale dei Calanchi di Atri, Sito di Interesse Comunitario (Site of Community Importance) e Oasi WWF, si estende per 380 ettari, con un dislivello che va dai 106 metri del fondovalle del torrente Piomba ai 468 m. del Colle della Giustizia, e custodisce i celeberrimi "calanchi di Atri", maestose architetture naturali note anche come "bolge dantesche" o "scrimoni".

Queste straordinarie formazioni geologiche, che tutta l'Italia ha potuto ammirare nella trasmissione televisiva Linea Verde del 6 Febbraio 2011, sono originate dall’erosione del terreno argilloso provocata dalle passate deforestazioni e favorita dai continui disseccamenti e dilavamenti, che rendono visibili numerosi fossili marini.

Pur essendo un fenomeno piuttosto ricorrente nel paesaggio adriatico, solo nel territorio atriano i calanchi raggiungono, oltre ad una notevole estensione, la massima spettacolarità. L'interno dell'area protetta è caratterizzato da un ambiente molto vario, che rapisce lo sguardo del visitatore: brulle rupi calanchive, fossi, laghetti, macchie boschive, campi coltivati e rimboschimenti si alternano in continuazione, formando una tavolozza di colori strabilianti. A dare ulteriore fascino ai luoghi contribuisce anche il mistero che avvolge la "Pietra di S. Paolo", il taumaturgico monolite custodito all'interno di una piccola cappella che la leggenda vuole sia la pietra sulla quale fu decapitato Paolo di Tarso nel 67 d.C.

Seppur apparentemente inospitali, i calanchi danno vita ed accoglienza ad una flora e una fauna ricche e diversificate. Tra le specie vegetali segnaliamo il Cappero, il Carciofo selvatico, la Ginestra odorosa, la Tamerice, il Biancospino e, soprattutto, la Liquirizia, che un famosissimo marchio dolciario atriano, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, utilizza fin dal 1811.

Tra le specie animali numerosi sono i rapaci diurni e notturni (Gheppio, Poiana, Sparviero, Barbagianni, Civetta, Allocco, Gufo, Assiolo) e i mammiferi (Cinghiale, Tasso, Volpe, Riccio, Lepre, Donnola, Faina). L’Istrice, simbolo della Riserva, è segnalato nella zona da alcuni decenni, anche se il suo carattere fortemente elusivo e le sue abitudini notturne ne rendono difficile l’avvistamento.

La Riserva, che può essere visitata liberamente percorrendo i sentieri segnalati, che partono dal Colle della Giustizia, dove è presente il Centro Visite, dispone di una panoramica cicloippovia per la gioia degli amanti del trekking, dell'endurance e della mountain bike.

Durante l’estate viene organizzato un ricco programma escursionistico, che culmina con suggestive passeggiate notturne nel periodo di luna piena ("La Luna e i calanchi").

 

La pietra di San Paolo

Fede, leggenda e storia si intrecciano, fino a confondersi, intorno a questo misterioso monolite che emerge per circa un metro dal terreno. La pietra è bianca, tenera, simile a una colonna spezzata e diversa dalle altre del luogo. La leggenda vuole che sia la stessa dove a Roma fu martirizzato San Paolo Apostolo nel 67 d.C., ma più verosimilmente si tratta dei resti di un'ara precristiana dove viaggiatori e mercanti che percorrevano l'Ager Adrianus (all'epoca importantissimo centro viario e commerciale) si fermavano a riposare e a ringraziare gli Dei sacrificando animali, come testimonia la presenza di incisure giugulatorie atte al deflusso del sangue e del vino purificatore.
Con l'avvento del Cristianesimo la pietra viene dedicata a S. Paolo di Tarso e di nuovo la storia si confonde con la tradizione e la fede. Si narra di tre tentativi di trasferimento utilizzando sette pariglie di buoi, con la pietra che, miracolosamente, torna da sola al suo posto.
Ma l'attribuzione taumaturgica più sentita dai fedeli atriani è sicuramente quella curativa nei confronti delle malformazioni ossee (in particolare del bacino) dei bambini, che venivano portati qui in silenziosa processione. Dopo una preghiera rituale e un lavaggio col vino i piccoli infermi venivano rivestiti con panni puliti e tornavano, per strada diversa, in Atri, conservando un pò di polvere della pietra e abbandonando i vecchi vestiti.
Dagli anni '70 la pietra è circoscritta da una cappella, che ne ha esaltato l'aspetto religioso, ma non ne ha cancellato i misteri.

Testo: Umberto Di Loreto - Fonti: Antonio Assogna, Pasquale Fuschi           

I laghi in argilla

E' l'acqua l'indiscussa artefice e scultrice delle forme ardite e monumentali dei calanchi.
Nonostante il ruolo fondamentale di incessante escavazione, essa permane pochissimo negli orridi creati, a causa delle pendenze e dell'impermeabilità delle argille.
L'ingegno dell'uomo, stimolato dalle necessità irrigue, ha trovato nei secoli una soluzione tanto efficace, quanto economica e poco impattante al problema: i laghi in argilla.
Si chiude a valle, con una diga in terra, un calanco di piccole dimensioni e non eccessiva portata; quindi si favorisce l'impianto, sulla parete esterna dello sbarramento, di piante dalle radici fitte e tenaci come la canna di Plinio. A questo punto si tappezza l'interno dell'invaso con grigie argille pleistoceniche, quasi totalmente impermeabili, e su un lato si apre un canale di scarico, per evitare un eccessivo riempimento del lago.
Il risultato è che a mezza costa, su terreni notevolmente declivi, si creano dei provvidenziali e cospicui depositi d'acqua, in grado di irrigare per caduta, cioè senza l'utilizzo di pompe meccaniche, i coltivi sottostanti.
Quella di costruire laghi in argilla, ovviamente senza conoscenza alcuna di ingegneria idraulica, è una vera e propria arte contadina che sta purtroppo scomparendo, sostituita dalla praticità di serbatoi in cemento armato o plastica e dall'uso di potenti pompe di sollevamento dal fondovalle.
Ultimamente i laghi presenti nella Riserva si sono rivelati essenziali per lo spegnimento di incendi dolosi, purtroppo sempre più frequenti.

Umberto di Loreto              

Le case in terra cruda

Le case in terra cruda o Pingiare, i cui ruderi sono ancora visibili, rappresentano un fulgido esempio di architettura povera, ma efficace, scaturito nel passato dalla necessità e dalla capacità di adattamento delle genti più umili di questo territorio.
Il materiale edile più utilizzato per secoli in quest'area è stato l'argilla, soprattutto sotto forma di mattoni cotti, come testimoniato dalla presenza in loco di numerose fornaci.
L'acquisto dei mattoni non era però possibile per tutti e il problema divenne ancora più evidente con l'arrivo nel XV secolo di numerosi coloni cristiani provenienti dall'Albania al seguito del Principe Scanderberg sconfitto dai turchi.
Si affermò quindi questa particolare tecnica edilizia che prevedeva l'impasto di argilla cruda, impermeabile e flessibile, con paglia, sassi, mattoni rotti e altro materiale, fino a realizzare dei blocchi regolari. Con questi veniva eretto un piccolo edificio ad un piano o due a seconda che la stalla fosse esterna o sottostante all'abitazione. Le travi venivano fornite dall'abbondante vegetazione e la copertura veniva realizzata con tegole sgraziate e di basso costo in quanto poco arcuate e sagomate: i cosiddetti pinci o pingi da cui il nome dell'abitazione.
Oltre all'economicità queste case avevano il vantaggio di adattarsi facilmente ai continui movimenti del terreno (limite attuale delle costruzioni in cemento armato) ed erano facilmente riparabili. In caso di necessità potevano poi essere smontate e ricostruite in luogo più stabile. Facoltà di architettura e singoli professionisti stanno attualmente rivalutando e attualizzando questa tecnica edilizia.

Umberto di Loreto              

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